domenica 14 Dicembre 2025
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“Trapassati” la performance site specific di Mauro Maurizio Palumbo

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trapassati

Sarà la Chiesa del Purgatorio ad Arco, nel cuore di via dei Tribunali, a ospitare sabato 29 e domenica 30 novembre alle ore 12 Trapassati, la nuova performance site-specific di Mauro Maurizio Palumbo. Un progetto a ingresso libero che intreccia azioni corporee, musica e narrazione simbolica, realizzato con la partecipazione del soprano Ilaria Tucci e del Maestro Ciro Riccardi alla tromba.

L’iniziativa nasce all’interno di uno dei luoghi più suggestivi e identitari di Napoli, dove storia, culto popolare e memoria collettiva continuano a dialogare con il presente. Proprio in questo contesto prende forma Trapassati, una riflessione performativa sulle energie terrene e ultraterrene che da secoli abitano il Complesso Monumentale del Purgatorio ad Arco, noto per la devozione alle anime pezzentelle e per la sua stratificazione spirituale.

Il titolo della performance richiama il canale energetico che, secondo la tradizione, unisce i defunti ai vivi: un rapporto basato sullo scambio, sul suffragio e sulla protezione, che crea un ponte tra la realtà concreta e la sospensione dello stato del Purgatorio. Palumbo reinterpreta questa eredità attraverso un linguaggio artistico che unisce corpo, gesto e silenzio, lasciando che siano lo spazio e il pubblico a generare un flusso emotivo condiviso.

Sull’altare maggiore domina la tela di Massimo Stanzione, la Madonna delle anime purganti, punto focale del dialogo scenico dell’artista. Avvolto in un sudario color carne, Palumbo costruisce una narrazione interamente affidata alla fisicità, mentre la tromba di Ciro Riccardi e la voce intensa di Ilaria Tucci ampliano la dimensione sonora, trasformando la chiesa in un ambiente vibrante di risonanze e richiami.

La performance si sviluppa come un racconto energetico site-specific, pensato per essere unico e irripetibile. La scelta dell’orario – mezzogiorno – aggiunge un ulteriore strato simbolico, legato al ciclo vitale della giornata e all’equilibrio tra ombra e luce. Momento centrale dell’azione è l’apertura del cancello del presbiterio, gesto compiuto dall’artista che stimola l’idea di attraversamento, di passaggio, di un flusso che si apre e coinvolge anche il pubblico.

Tra i presenti si mescolano curiosi, visitatori del complesso museale e persone che scelgono consapevolmente di vivere un’esperienza immersiva, lasciandosi attraversare dall’arte in un luogo dove memoria e spiritualità sono ancora profondamente attive.

La ricerca di Palumbo si intreccia così con la storia universale e con quella del Purgatorio ad Arco, luogo che l’artista frequenta quotidianamente e da cui ha tratto ispirazione, richiamato dalla forza simbolica, dal mistero e dalla sacralità che lo caratterizzano.

La reazione del pubblico conferma come performance di questo tipo possano contribuire a valorizzare la storia, l’arte e l’identità della città, offrendo nuove modalità di lettura e fruizione di spazi che appartengono da secoli al patrimonio culturale napoletano. Merito anche della gestione del Complesso Monumentale del Purgatorio ad Arco, che continua a custodire la memoria millenaria del luogo rendendola accessibile attraverso iniziative culturali di qualità.

Un appuntamento da non perdere, per il valore artistico e per la capacità di mettere in contatto mondi diversi, facendo risuonare nel presente un patrimonio spirituale sempre vivo.

Complesso monumentale di Purgatorio ad Arco a Napoli

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purgatorio ad arco

Un viaggio tra arte barocca, culto delle anime pezzentelle e memoria napoletana

Il Complesso monumentale del Purgatorio ad Arco a Napoli è uno dei luoghi più suggestivi del centro storico, dove arte barocca e devozione popolare si intrecciano profondamente. Lungo via dei Tribunali, nel centro storico di Napoli, si trova la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, conosciuta dai napoletani come la chiesa d’’e cape ’e morte. Entrare qui significa immergersi in un luogo unico, dove arte, devozione popolare e memoria dei defunti convivono in modo armonioso.

Dalla splendida chiesa seicentesca, che conserva il celebre Teschio alato di Dionisio Lazzari e opere di Stanzione, Giordano e Vaccaro, si scende verso l’antico ipogeo, ancora oggi centro del culto delle anime pezzentelle: resti anonimi ai quali i fedeli rivolgono preghiere e richieste di aiuto. La visita si conclude con un piccolo museo nella elegante sagrestia.

Origini e progetto barocco del complesso

Il complesso barocco fu commissionato nel 1616 dall’Opera Pia del Purgatorio ad Arco e progettato da Giovan Cola di Franco. Consacrato nel 1638, prevedeva due livelli: la chiesa superiore, simbolo della vita terrena, e un ampio spazio sotterraneo dedicato al Purgatorio.

Nel clima post-conciliare, il tema delle anime da suffragare era centrale, e l’intero complesso – facciata, arredi, cappelle e sagrestia – fu pensato per ricordare ai fedeli l’importanza della preghiera per i defunti.

Le opere principali

Il Transito di San Giuseppe – Andrea Vaccaro (1650-51) 

Nella terza cappella sinistra. Rappresenta la morte serena di San Giuseppe, assistito da Gesù e Maria. Vaccaro crea una scena intima e pacata, illuminata da una luce dolce che sottolinea l’idea di una “buona morte”. Nel contesto della chiesa, questa immagine ricorda al fedele la speranza di un passaggio sereno alla vita eterna.

La Morte o Estasi di Sant’Alessio – Luca Giordano (1661)

Nella terza cappella destra. Opera giovanile ma già energica, caratterizzata da forti contrasti di luce e colori brillanti. Sant’Alessio appare sospeso tra terra e cielo, avvolto in una luce intensa. Il dipinto esprime la tensione mistica del passaggio dell’anima dalla vita terrena a quella divina.

La Madonna delle anime purganti – Massimo Stanzione (1638-42) Sulla parete di fondo.

È il cuore del complesso: la Madonna accoglie sotto il suo manto le anime del Purgatorio che la invocano tra le fiamme. Stanzione unisce eleganza classica e chiaroscuro caravaggesco, creando un’immagine forte e rassicurante.

Sotto la tela si trova il celebre Teschio alato di Dionisio Lazzari, simbolo della vittoria sulla morte.

 Sant’Anna che offre la Vergine al Padre Eterno – Giacomo Farelli (1670) Sull’arco trionfale.

L’opera rappresenta Sant’Anna che presenta Maria bambina al Padre Eterno. Nuvole, angeli e luce creano un movimento ascendente che richiama l’idea di salvezza e grazia divina.

San Michele Arcangelo che abbatte il demonio – Girolamo De Magistro (1650)

Nella prima cappella sinistra. San Michele, luminoso nella sua armatura, sconfigge il demonio. La scena è energica e teatrale, e introduce simbolicamente il tema della vittoria del bene sul male, perfetto prologo alla spiritualità del Purgatorio.

Storia del complesso

La congrega del Purgatorio ad Arco trovò qui una sede stabile dopo essere passata da diverse chiese della città. La costruzione fu resa possibile dal lascito di 4000 ducati del cavaliere Pietro Antonio Mastrilli.

Dal 1616 si acquistò una taverna con le sue cantine, così da poter costruire la chiesa superiore e, sotto di essa, l’ampio ipogeo destinato ai confratelli.

Nel 1619 intervenne l’architetto Giovan Giacomo di Conforto, che continuò l’opera secondo i principi della Controriforma: navata unica, cappelle laterali, cupola luminosa.

Una grande innovazione fu la “chiesa nella chiesa”: l’ambiente sotterraneo, non una semplice cripta, ma un luogo per celebrazioni e preghiere, austero e fortemente simbolico.

Durante il Seicento e il Settecento il complesso fu arricchito e restaurato, e nell’Ottocento venne rifatta la sagrestia. Dopo il terremoto del 1980 la chiesa è stata accuratamente restaurata.

L’Ipogeo

Una botola nella navata conduce alla chiesa inferiore: uno spazio ampio e spoglio, simbolo del Purgatorio e centro del culto delle anime pezzentelle.

Al centro si trova una grande tomba anonima, circondata da catene. Le pareti ospitano nicchie, piccoli altari e teche votive, testimonianza di una devozione nata già nel Seicento.

Sulla parete di fondo compare un austero altare con grandi croci nere.

Un corridoio laterale porta alla Terra santa, dove si trovano diversi teschi, tra cui quello di Lucia, l’anima più amata dai devoti, circondata da un ricco altarino votivo.

La struttura dell’ipogeo, organizzata con altare e cappelle laterali, crea un forte contrasto con la decorazione ricca della chiesa superiore. Fin dall’inizio, infatti, il complesso fu pensato come un percorso simbolico tra terra, Purgatorio e speranza di salvezza.

A metà Settecento l’ambiente fu ampliato e decorato con maioliche dai motivi di teschi, ossa e piccoli fiori, realizzate dai maestri riggiolari napoletani.

Donne nella Napoli spagnola” la mostra che alle Gallerie d’Italia riscopre le artiste del Seicento e celebra la Giornata contro la violenza sulle donne.

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“Eliezer e Rebecca al pozzo”, dipinto attribuito a Porcini, opera del Seicento in mostra alle Gallerie d’Italia di Napoli

Donne nella Napoli spagnola: una mostra per il 25 novembre

Donne nella Napoli spagnola una mostra nella giornata dedicata alla denuncia della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre, la cultura può farsi strumento di memoria e riscatto.

La mostra “Donne nella Napoli spagnola. Un altro Seicento”, alle Gallerie d’Italia di Napoli (20 novembre 2025 – 22 marzo 2026), offre proprio questo: un viaggio nella vita, nell’opera e nella resistenza creativa delle donne in un secolo che raramente ha riconosciuto loro un ruolo pubblico.

Restituire spazio alle artiste significa contrastare non solo la violenza fisica, ma anche quella più sottile, sistemica e secolare dell’invisibilità. Ed è in questo orizzonte che l’esposizione si inserisce con forza.

Lavinia Fontana e Fede Galizia: le pioniere del Seicento napoletano

Il percorso si apre con due protagoniste “forestiere”, Lavinia Fontana e Fede Galizia, attive per la committenza napoletana nella prima metà del secolo. Le loro opere presenti in apertura di mostra dialogano idealmente con l’irruzione caravaggesca nella città.

Se Fontana porta a Napoli il suo stile raffinato, attento al ritratto psicologico femminile e al decoro monumentale, Galizia introduce la delicatezza iperrealista delle sue nature morte, un genere in cui eccelse quando alle donne venivano spesso concessi solo soggetti “minori”.

Le tele raccolte mostrano la qualità tecnica e la padronanza culturale di due artiste capaci di interpretare i gusti dei committenti locali, nonostante barriere di genere e provenienza.

Artemisia Gentileschi: la potenza femminile nel cuore della mostra

Santa Cecilia di Artemisia Gentileschi, opera esposta nella mostra “Donne nella Napoli spagnola”.

Fulcro emotivo e simbolico del percorso è l’arrivo a Napoli di Artemisia Gentileschi, icona internazionale della resistenza femminile e della trasformazione del trauma in arte.

La mostra presenta importanti dipinti dell’artista mai esposti prima in Italia.

Tra questi spicca la straordinaria Santa Cecilia (1645–1650 circa) proveniente dalla Collection of The John and Mable Ringling Museum of Art (Florida). In quest’opera, Artemisia ritrae la santa della musica con un’intensa monumentalità: non una figura fragile o estatica, ma una donna forte, concentrata, che stringe l’organo portativo con mani solide e consapevoli.

La luce radente scolpisce il volto e il panneggio con un dramma tipicamente caravaggesco, mentre l’espressione assorta evoca un’identità autonoma e determinata.

È un’immagine che risuona potentemente nella giornata di oggi: Cecilia non subisce, sceglie. Non è oggetto del quadro, ne è il soggetto.

Giovanna Garzoni e Annella di Massimo: talenti paralleli

Il percorso prosegue con il breve ma significativo passaggio a Napoli di Giovanna Garzoni, una delle più raffinate pittrici del Seicento europeo. Le sue carte e tempere, di cui la mostra presenta una selezione, rivelano una sensibilità minuziosa e quasi scientifica.

Il tratto delicatissimo, l’uso sapiente della luce e la precisione botanica mostrano come Garzoni abbia portato a Napoli una nuova forma di osservazione, più intima e più moderna.Accanto a lei emerge la figura affascinante di Diana De Rosa, detta Annella di Massimo, una delle poche artiste nate e formate a Napoli.

I suoi dipinti, qui finalmente valorizzati in un contesto monografico, mostrano una sorprendente maturità caravaggesca: volti intensi, drammaticità calibrata, un uso quasi emotivo delle ombre. La sua presenza in mostra non ha solo valore storico: ricorda quanto talento femminile sia stato taciuto, disperso o attribuito a uomini.

Le “dive” del Seicento napoletano: vite che rompono lo schema

Una delle sezioni più originali della mostra è dedicata alle figure pubbliche femminili della vita culturale napoletana come Adriana Basile e Giulia De Caro.

Adriana Basile, cantante di fama internazionale, di cui la mostra presenta ritratti e documenti che ne testimoniano il prestigio. Basile fu celebrata nelle principali corti italiane ed europee: la sua voce divenne simbolo di un talento femminile capace di imporsi in un mondo dominato da uomini, conquistando rispetto e autonomia economica.

Giulia De Caro, attrice e impresaria, la sua storia è un racconto di riscatto: da prostituta a direttrice di un teatro, ruolo rarissimo per una donna dell’epoca. In mostra, oggetti, stampe e testimonianze ricostruiscono il suo percorso professionale e umano.

È forse la figura che più parla all’oggi: la sua vita è un esempio di emancipazione contro ogni forma di violenza sociale e morale.

Artiste meno note, ma imprescindibili

Per ricomporre un Seicento al femminile il più possibile completo, la mostra dedica spazio anche a figure spesso trascurate: Teresa Del Po: pittrice e miniatrice dalla tecnica finissima, rappresentata attraverso lavori che mostrano la sua padronanza del disegno e la sensibilità narrativa.

Caterina De Iulianis, ceroplasta: le sue figure in cera, presenti in mostra, vengono messe in dialogo con le sculture della grande artista andalusa Luisa Roldán, creando un confronto inedito tra due donne che operarono in un medium spesso relegato all’artigianato, ma di altissima complessità tecnica.

Due capolavori-simbolo della Napoli spagnola

A completare il percorso, due prestiti eccezionali evocano la presenza e il potere delle figure femminili nell’immaginario seicentesco.

Il ritratto di Maria d’Ungheria di Velázquez

Un’immagine di straordinaria intensità, dove la regina vedova, figura politica centrale nel mondo asburgico, appare solenne e autorevole. La presenza del dipinto in mostra ricorda il ruolo delle donne nelle reti dinastiche e diplomatiche dell’epoca.

La “donna barbuta”: Maddalena Ventura di Jusepe de Ribera

Maddalena Ventura con il marito e il figlio, celebre ritratto di Jusepe de Ribera, simbolo della Napoli spagnola del Seicento.
Jusepe de Ribera, Maddalena Ventura con il marito e il figlio. Il celebre ritratto della “donna barbuta”, icona della complessità umana nella Napoli del Seicento.

Uno dei ritratti più celebri e più enigmatici del Seicento. Maddalena, affetta da ipertricosi, viene ritratta da Ribera con dignità monumentale, mentre allatta il figlio. Non è ridotta a curiosità, ma elevata a icona della complessità umana.

In una società che spesso puniva il “diverso”, questo quadro, esposto in mostra, diventa un potente manifesto contro ogni forma di discriminazione e violenza simbolica.

Perché questa mostra conta oggi

Ricostruire la presenza delle donne nella Napoli spagnola significa sfidare secoli di cancellazioni.

Significa ricordare che la violenza contro le donne non è solo fisica, ma anche culturale: negazione del talento, sottrazione dello spazio pubblico, riduzione al silenzio.

Nel giorno in cui il mondo si ferma a riflettere su tutto questo, la mostra offre una risposta costruttiva: guardare alla storia per riscrivere il presente, riconoscendo finalmente alle donne il posto che spetta loro nell’arte e nella società.

    Viaggio cromatico nella Metropolitana di Chiaia – Monte di Dio

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    Cupola con occhi e vista sui binari della stazione Chiaia – Monte di Dio, area simbolica dedicata all’Ade.

    Un percorso simbolico e mitologico nella stazione della Metropolitana Chiaia – Monte di Dio, tra luce, buio e architetture visionarie di Umberto Siola e Peter Greenaway, attraverso il racconto fotografico di Bruno Mottola.

    La Metropolitana Chiaia Monte di Dio è uno dei luoghi simbolici più suggestivi della città, un’opera che trasforma il viaggio in un’esperienza artistica e mitologica. Un viaggio sotterraneo che si trasforma in un’esperienza visiva e simbolica, raccontando Napoli nella sua essenza più profonda: un invito a riscoprire la città sotto una nuova luce, fatta di ombre, colori, luci e riflessi.

    La metropolitana di Chiaia – Monte di Dio è molto più di un semplice mezzo di trasporto; è una maestosa opera d’arte concettuale, parte del circuito delle stazioni dell’Arte, una tappa imperdibile.

    Ogni punto della linea, progettata da Umberto Siola e impreziosita dagli interventi artistici di Peter Greenaway, diventa una tappa di questo viaggio simbolico, che rappresenta l’incontro tra due forze opposte ma complementari: la luce e il buio, l’ascesa e la catabasi (Nel mondo greco, la discesa dell’anima nell’oltretomba).

    Un viaggio cromatico tra ascesa, catabasi e introspezione

    La metropolitana di Chiaia – Monte di Dio è il luogo in cui il visitatore intraprende un viaggio cromatico che, a seconda del punto di ingresso, può essere interpretato come un’ascesa dal buio degli inferi verso la luce del paradiso (ingresso da Via Chiaia), ma anche come il suo contrario (ingresso da Piazza Santa Maria degli Angeli): una catabasi purificatrice che dal paradiso discende nelle profondità oscure e misteriose del sottosuolo.

    È un viaggio nel ventre della città, ma anche una metafora di un percorso all’interno di sé, un cammino verso l’introspezione, con rimandi junghiani alla conoscenza delle proprie ombre.

    Un’esperienza che cambia dunque a seconda del punto da cui si inizia e della direzione che si sceglie, simbolo perfetto della duplice natura della metropolitana come passaggio tra mondi, e ancor più di una città che è tutto e il contrario di tutto, con le sue mille anime e contraddizioni.

    Napoli come metafora architettonica e spirituale

    Napoli non si lascia mai leggere in un solo piano. È città di cunicoli e terrazze, di viscere e panorami.

    La metropolitana di Chiaia ne è la metafora perfetta: un viaggio che è al tempo stesso discesa nella memoria e ascesa nella visione.

    Architettura, miti e il percorso narrativo di Peter Greenaway

    Dal punto di vista architettonico e ingegneristico, la metropolitana è stata progettata per unire due livelli diversi della città e portare la luce naturale da Piazza Santa Maria degli Angeli fino al piano del ferro.

    Si è giocato con i volumi sovrapposti, dalla forma cilindrica alla volumetria cubica fino alla cupola semisferica.

    Il percorso mitologico creato da Peter Greenaway è una discesa nei miti classici, un viaggio attraverso le divinità che governano i vari domini: l’oceano, la terra, gli inferi, il cosmo.

    La stazione diventa così un “non-luogo” architettonico e mitologico, dove ogni passaggio è legato alla forza di una divinità che rappresenta un aspetto della vita umana: la morte, la rinascita, il tempo, la fertilità, il destino.

    Il viaggiatore come protagonista del mito urbano

    Come in un ciclo eterno, il viaggiatore si muove attraverso questi spazi, attraversando le stagioni della vita e della morte.

    La narrazione si snoda come un viaggio all’interno di un labirinto mitologico che affonda nelle radici stesse della città, il mondo greco.

    Ogni sezione dell’ambiente riflette un aspetto dell’eroico viaggio di discesa e rinascita, come nella tradizione mitologica classica.

    Qui il protagonista è il viaggiatore e la metropolitana, non più una semplice infrastruttura, quasi un corpo vivo che si muove insieme a chi compie il viaggio: un’esperienza spirituale in movimento.

    l percorso fotografico di Bruno Mottola

    Bruno Mottola (autore delle fotografie della galleria) traduce questo linguaggio visivo in una mappa emotiva: scendere, osservare, lasciarsi attraversare dal colore e, infine, tornare alla luce, trasformati.

    Seguendo lo stesso percorso illustrato nella galleria fotografica, iniziamo il nostro viaggio dalle banchine.

    Quindi se si entra da via Chiaia, il percorso si configura come un’ascesa che, partendo dall’oscurità, sembra portare verso una resurrezione: una trasformazione simbolica che si concretizza nel passaggio dalle tenebre alla luce. Man mano che si sale, i colori mutano e diventano sempre più luminosi, accompagnando il viaggiatore verso il bianco puro, fino alla luce naturale.

    I livelli simbolici: Ade, Proserpina, Cerere, Nettuno, Giove

    Sulle banchine, i binari dipinti di un rosso intenso richiamano l’immagine dell’Ade, il dominio oscuro di Plutone. Qui, nel cuore della terra, prende forma il regno dove dimorano le anime.

    Sopra la stazione si apre una grande cupola tempestata di occhi, come se il dio degli inferi osservasse silenziosamente chi entra e chi esce dai treni. Il suo sguardo sembra congelare ogni movimento, ricordando al viaggiatore il confine sottile tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

    Avanzando negli ambienti interni, il rosso lascia spazio a tonalità dell’arancio. È il passaggio simbolico dedicato al mito di Proserpina: il suo rapimento, la sua discesa e il suo ritorno ciclico sulla terra, che scandisce il ritmo delle stagioni. Qui il riferimento al fiume Stige, confine tra i due mondi, è palpabile.

    Sulle pareti compaiono sei melograni, emblema del legame indissolubile tra Proserpina e l’oltretomba: il frutto che la vincolò al regno sotterraneo e al suo eterno alternarsi di morte e rinascita.

    Proseguendo nel percorso si entra in un grande volume geometrico, dedicato a Cerere, dea della terra e della fertilità. Il verde domina lo spazio, evocando prati, campi e raccolti.

    Al centro, un imponente cubo racchiude la Galleria d’Arte, dove sono esposte riproduzioni delle statue Farnese conservate al Museo Nazionale di Napoli. Questo ambiente, legato alla figura di Cerere, diventa metafora del ritorno della primavera: la natura che risorge dopo il buio e il gelo dell’inverno.

    Più avanti, una rampa a spirale conduce verso un’atmosfera completamente diversa: toni bianchi e blu richiamano le profondità marine, dominio di Nettuno. L’impressione è quella di immergersi lentamente negli abissi, accompagnati da una citazione di Ovidio che celebra la serenità dell’acqua dolce: “Est in aqua dulci non invidiosa voluptas”.

    La discesa acquista così un valore simbolico, un viaggio dentro se stessi, verso un luogo segreto e quieto, libero da rivalità e tensioni.

    Il percorso si conclude in Piazza Santa Maria degli Angeli, dove svetta la monumentale figura di Giove. La scultura, realizzata in acciaio e dotata di ventiquattro braccia alate, rappresenta lo scorrere delle ore e il potere cosmico del dio che governa il cielo.

    È qui che il cammino mitologico trova il suo compimento: la piazza, rinnovata e luminosa, diventa contemporaneamente approdo e punto di partenza, sotto lo sguardo vigile del sovrano degli dèi.

    Il riconoscimento internazionale: il Prix Versailles 2024

    Nel 2024, la stazione di Chiaia – Monte di Dio ha ricevuto il prestigioso Prix Versailles, classificandosi al secondo posto nella categoria “Stazioni Ferroviarie” come una delle più belle al mondo.

    Un riconoscimento che sottolinea l’importanza di questa fermata, non solo come parte integrante della rete metropolitana di Napoli, ma anche come un capolavoro di architettura e arte da non perdere.



    “Le spine del Rosa” di Daniela Marra: la recensione

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    Copertina del libro ‘Le spine del Rosa’ di Daniela Marra, edizione Colonnese: fotografia della cover con titolo e grafica originale

    Un viaggio narrativo nell’arte, nella vita e nelle inquietudini di Salvator Rosa attraverso il romanzo di Daniela Marra.

    Il libro Le spine del Rosa di Daniela Marra (Colonnese editore) accoglie il lettore come un luogo da esplorare. La prima cosa che colpisce è il titolo, potente e magnetico, esaltato da una copertina che non passa inosservata. Per chi, come me, si occupa di storia dell’arte, incontrare tra queste pagine figure come Jusepe de Ribera, Micco Spadaro, Aniello Falcone e Giovanni Lanfranco è un piacere raro, un incentivo a proseguire la lettura senza interruzioni. Anche chi non ha un interesse specifico per l’arte troverà però un ritratto convincente della Napoli e dell’Italia del Seicento, delineato con grande efficacia narrativa.

    Salvator Rosa: un artista fuori dagli schemi

    E il “Rosa” evocato dal titolo? Un artista difficile da incasellare, poeta e pittore dal temperamento irruento – carattere comune a molti creativi del periodo – che si fece conoscere per la sua pittura fuori dagli schemi: battaglie dove il vero protagonista non è l’eroe, ma l’atmosfera inquieta del paesaggio. Uno stile che gli valse l’attenzione di personalità influenti come il cardinale napoletano Francesco Maria Brancacci e il re Filippo IV di Spagna.

    Passioni, scandali e ferite nella vita di Rosa

    Anche la sua vita privata, che l’autrice restituisce con intensità e contrasti degni delle sue tele, diventa parte integrante del racconto. La storia d’amore con Lucrezia Paolini, già sposata, generò scandali e pettegolezzi nella Roma del tempo: dalle loro vicende scaturirono alcune delle opere più intime dell’artista. La morte del figlio Rosalvo, vittima della peste, rappresentò per lui un colpo devastante, un evento che cambiò profondamente il suo modo di sentire e di dipingere.

    Il legame con Napoli e la ricerca sulla realtà

    Il rapporto con Napoli, la città in cui crebbe, è un altro dei cardini del libro. Il temperamento esplosivo del giovane Rosa sembra riflettere quello della sua terra: l’immagine iniziale della corsa sfrenata con i fratelli è un’apertura simbolica e suggestiva. La Marra utilizza spesso un linguaggio ricco e musicale, e in momenti quasi lirici descrive la pittura come un movimento sensuale che rende la realtà più vera del reale. Salvatore se lo chiede: che cosa significa davvero realtà? Una domanda che attraversa tutta l’opera.

    Una narrazione originale tra ricerca storica e introspezione

    Si intuisce un lavoro meticoloso sulle fonti, accompagnato però da una libertà narrativa che non appesantisce, anzi dona originalità al romanzo. Non è una biografia, ma un’immersione nel mondo interiore di “colui che sfidò il mondo attraverso i suoi quadri”. La bellezza magari non salva il mondo, ma le opere di Rosa continuano a parlare a chi le osserva.

    Un artista difficile da amare, un romanzo necessario

    Come spesso succede, c’è voluto tempo perché il talento di quest’artista, capace di opporsi alle convenzioni del suo tempo, venisse riconosciuto. Anche uno studioso come Causa lo definì “uno degli artisti più difficili da amare”. L’autrice merita quindi un elogio per aver raccontato un secolo tormentato e contraddittorio e, allo stesso tempo, per averci accompagnati nel buio interiore di Rosa, un buio che appartiene un po’ a tutti.

     

    Caravaggio a Napoli: un viaggio nella materia del sacro

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    Le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio al Pio Monte della Misericordia di Napoli, capolavoro del Merisi con scena notturna e forte chiaroscuro.

    Un itinerario tra le opere napoletane di Michelangelo Merisi: dalle Sette Opere di Misericordia alla Flagellazione di Cristo fino al Martirio di Sant’Orsola

    Arrivare a Napoli sulle tracce di Caravaggio significa entrare in una città che sembra aver assorbito la sua stessa tensione luminosa.
    Durante gli anni difficili della fuga, il Merisi trovò qui un terreno in stretta assonanza con il suo modo di guardare il mondo: vicoli tagliati da lame di luce, improvvisi baleni che emergono dal buio, proprio come nei suoi quadri. È seguendo questo ritmo di ombre e aperture improvvise che si può cominciare il viaggio nelle tre opere che il pittore ha lasciato alla città, quasi fossero frammenti della sua stessa biografia luminosa.

    Le Sette Opere di Misericordia: il capolavoro del Pio Monte

    La prima tappa è il Pio Monte della Misericordia a via dei Tribunali. Oltre il portone si viene avvolti da un silenzio ‘verticale’, raccolto attorno al grande altare che ospita Le Sette Opere di Misericordia. La tela, enorme e orchestrata con una complessità quasi impossibile, mostra la piena maturità compositiva del Merisi. È un quadro costruito su più livelli narrativi che si intrecciano senza interruzione, con una densità di figure e azioni che richiederebbe, sulla carta, una serie di tele separate. Caravaggio invece ne fa un’unica scena notturna, un dramma urbano in cui le opere di carità corporali vengono rilette come episodi di un’unica ‘visione di misericordia’.

    Dal punto di vista tecnico, è un’opera che rivela una gestione della luce d’impressionante precisione. Il chiaroscuro non è qui un semplice effetto drammatico, ma un vero meccanismo narrativo: la luce cala obliqua dall’alto, come se scendesse da una fonte celeste, modellando i volti e i gesti con un’esattezza anatomica che accentua il senso di realtà. Gli studi radiografici hanno mostrato la sorprendente sicurezza con cui Caravaggio affronta la disposizione delle figure: pochissime pentimenti, molte linee luminose tracciate direttamente sul fondo scuro. È la dimostrazione del suo metodo  in cui la luce stessa diventa strumento di composizione.

    L’angelo che domina la parte alta della scena, sorreggendo il drappo, introduce un registro quasi teatrale: una sorta di “cornice luminosa” che separa e al tempo stesso collega il livello celeste con quello terreno. Le azioni caritatevoli – dall’allattamento del carcerato al soccorso del pellegrino – si collocano in uno spazio angusto e pieno, dove la gestualità è calibrata con cura: ogni braccio teso, ogni volto ruotato partecipa a una struttura compositiva che si regge su diagonali. Eppure, nonostante la complessità, la scena non appare caotica.

    La Flagellazione di Cristo al Museo di Capodimonte

    Dalla città vecchia, ci si sposta verso l’alto, al Museo di Capodimonte, dove si trova la Flagellazione di Cristo, realizzata nel 1607. Qui l’atmosfera cambia completamente: se il quadro del Pio Monte è espansivo e plurale, questa tela è ridotta all’essenziale. Caravaggio, infatti, elimina ogni elemento superfluo: tutto è sacrificato a un impianto compositivo rigoroso, concentrato attorno alla figura di Cristo. La colonna è volutamente bassa e costringe il corpo del Redentore a un’inclinazione diagonale che è la vera ossatura dell’opera: attorno a essa si organizzano le linee dei carnefici, che formano un mosaico di movimenti contrapposti.

    Tecnicamente, questo quadro è uno dei più “geometrici” della produzione napoletana del Merisi. Le diagonali create dai corpi e dagli arti dei flagellanti convergono tutte sul torso di Cristo, che è l’unica figura realmente modellata dalla luce. Il suo busto appare quasi scultoreo, costruito con una definizione che richiama la tradizione michelangiolesca, ma reinterpretata attraverso l’uso del chiaroscuro: la luce lo colpisce in modo così netto da cancellare quasi del tutto la linea di separazione tra figura e sfondo. I carnefici, invece, emergono a tratti dalla penombra, con volti privati di identità, solo due forze cieche.

    Il Martirio di Sant’Orsola alle Gallerie d’Italia

    Da Capodimonte si ritorna nel cuore della città, lungo via Toledo, per entrare a nel palazzo del Banco di Napoli, dove è conservato Il Martirio di Sant’Orsola (1610), l’ultima opera del Merisi. Qui il registro cambia di nuovo: non più un dramma complesso e stratificato, né un rito della violenza geometrica, ma un istante congelato. La scena si svolge in un ambiente chiuso, delimitato da una tenda scura: Sant’Orsola, colpita nel petto dalla freccia scoccata da Attila, guarda la propria ferita con una compostezza che è il cuore emotivo del quadro: non c’è retorica del martirio, ma un dolore raccolto, quasi introspettivo.

    La luce in quest’opera è calibrata con una sensibilità ancora più raffinata rispetto ai quadri precedenti. Non si tratta di un’illuminazione radente, bensì di un cono verticale che investe selettivamente i volti chiave: quello della santa, quello di Attila che indietreggia, e quello del personaggio alle sue spalle – forse un autoritratto di Caravaggio – che guarda la scena con un’espressione di sgomento trattenuto.

    L’opera presenta inoltre una densità materica particolare: le pennellate sono rapide, sovrapposte, quasi concitate, come se Caravaggio stesse combattendo contro il tempo. Il recente restauro ha rivelato figure precedentemente inghiottite dalla penombra: teste, elmi, profili secondari che costruiscono una piccola folla attorno alla santa, trasformando il suo martirio in una scena corale ma soffocata, compressa. Tutto è ravvicinato, tutto è immediato: non c’è distanza, e questo aumenta la violenza psicologica della scena.

    Conclusione: un itinerario caravaggesco nel cuore di Napoli

    Osservando le tre opere una dopo l’altra, si ha la sensazione di attraversare non solo tre luoghi di Napoli, ma tre stati d’animo dell’artista, tre modalità differenti di affrontare il sacro.

    Napoli li conserva come un itinerario non ufficiale della sua memoria e alla fine del percorso si comprende una cosa semplice ma decisiva: Caravaggio non ha solo dipinto Napoli, ma l’ha respirata.  Forse è per questo che la città continua a custodire le sue tele come un segreto antico, con luce ed ombra insieme.

    Il Mitreo dell’antica Capua: tra archeologia e simboli junghiani. Una giornata tra studio, esperienza e psiche

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    Mitreo di Santa Maria Capua Vetere, ambiente sotterraneo del culto di Mitra

    Un convegno che unisce patrimonio culturale e psicologia analitica

    Sabato 22 novembre 2025, dalle 9.30 alle 17.30, il Museo Archeologico Nazionale dell’antica Capua ospita una giornata di studi dal titolo “Il Mitreo dell’antica Capua tra lettura archeologica e lettura simbolica junghiana. Itinerari della psiche”.
    L’evento — promosso dalla Direzione Regionale Musei Nazionali Campania, dalla Direzione del Museo e dalla Sezione napoletana dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (A.I.P.A.) — propone un percorso che intreccia conoscenza scientifica, ascolto del corpo, simboli antichi e profondità dell’immaginario.

    Un appuntamento pensato per avvicinare il grande pubblico a uno dei luoghi più straordinari e affascinanti della storia campana, il Mitreo di Capua, tra le testimonianze più significative del culto orientale di Mitra in Occidente.

    Il programma della giornata

    Dopo i saluti istituzionali della direttrice Antonella Tomeo, a cui fanno capo il Museo archeologico nazionale dell’antica Capua, l’Anfiteatro Campano e il Mitreo, la sessione mattutina prende avvio con una fase esperienziale guidata dalla psicologa e psicoterapeuta Anna Bruno, analista A.I.P.A., dedicata all’attivazione corporea.

    A seguire, la direttrice Tomeo conduce i partecipanti in una visita approfondita al Mitreo, illustrando storia, iconografia e peculiarità del santuario sotterraneo.

    Locandina ufficiale del convegno sul Mitreo dell’antica Capua – Itinerari della psiche

    Gli interventi scientifici

    La seconda parte della mattinata e il pomeriggio ospitano quattro contributi che mettono in dialogo archeologia, storia delle religioni e psicologia analitica junghiana:

    Antonella Tomeo“Il Mitreo dell’antica Capua. Testimonianze di culti orientali in Campania”
    Un approfondimento sul ruolo del Mitreo nel panorama religioso campano e sulle sue connessioni con il mondo mediterraneo.

    Gloria Gleijeses, psicologa, psicoterapeuta e responsabile della sezione napoletana A.I.P.A. – “Il culto mitraico in una prospettiva analitica”
    Una lettura simbolica e junghiana dei riti mitraici e della figura di Mitra come archetipo.

    Giovanni Gaglione, psichiatra, psicologo e referente dell’area “Itinerari della Psiche” – “Enérgheia e Pathos nell’Immagine. Un confronto tra C. G. Jung e A. Warburg”
    Un confronto tra due protagonisti della riflessione sul potere delle immagini e dei simboli.

    Massimiliano Scarpelli, psicologo, psicoterapeuta e analista – “Il senso simbolico del culto mitraico nell’ambito della psicologia analitica”
    Un’indagine sul valore trasformativo del simbolo mitraico nei processi psichici.

    Laboratori ed esperienze condivise

    Il programma prosegue con due attività partecipative:

    Laboratorio di scrittura creativa a cura della scrittrice e docente Marilena Lucente, dedicato alla rielaborazione narrativa delle impressioni suscitate dal Mitreo.

    Esperienza gruppale “Dal Mitreo al gruppo: il rito come spazio di trasformazione”, guidata dalla psichiatra e analista Paola Russo, per esplorare dinamiche collettive e dimensione rituale.

    Un evento a numero chiuso: come partecipare

    La partecipazione è a numero chiuso. È obbligatoria la pre-iscrizione all’indirizzo: aipanapoli@gmail.com

    Il significato dell’iniziativa

    «Nel cuore dell’antica Capua, un luogo sacro e misterico apre le sue porte a un dialogo tra archeologia e psicologia analitica, tra immagini, simboli, misteri e profondità dell’inconscio collettivo, attraverso l’esplorazione di un percorso esperienziale che intreccia patrimonio culturale, religione antica e scienza moderna», commenta la direttrice Antonella Tomeo.

    Un invito a riscoprire il Mitreo non solo come straordinaria testimonianza storico-archeologica, ma come spazio vivo, capace di parlare alla sensibilità contemporanea attraverso la forza dei suoi simboli.

    Parco Archeologico di Ercolano: la crescita dei visitatori e il successo delle iniziative serali

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    Vista panoramica del Parco Archeologico di Ercolano con gli scavi e le strutture romane perfettamente conservate.

    Trend positivo per gli ingressi e sold out alle Terme Suburbane

    Il Parco Archeologico di Ercolano continua a registrare numeri in crescita, confermandosi una delle mete culturali più dinamiche della Campania.
    Nei primi 10 mesi del 2025 gli ingressi hanno registrato un incremento di circa il 3% rispetto allo stesso periodo del 2024, un dato che consolida un trend positivo destinato a proseguire fino alla fine dell’anno.

    Grande successo anche per la riapertura straordinaria delle Terme Suburbane, visitabili per tre sabati consecutivi dal 15 al 29 novembre. Considerato uno dei complessi termali romani meglio conservati al mondo, il sito ha registrato sold out in poche ore dall’apertura delle prenotazioni.

    Una Notte al Museo: aperture serali fino al 25 novembre

    Prosegue inoltre, fino a martedì 25 novembre 2025, l’iniziativa Una Notte al Museo, che consente al pubblico di accedere in orario serale, ogni martedì e giovedì, con biglietto ridotto a due spazi culturali di grande valore:

    Padiglione della Barca

    Un percorso dedicato al legame tra Ercolano e il mare, con reperti eccezionali tra cui la celebre lancia militare rinvenuta sull’antica spiaggia.

    Vista panoramica del Parco Archeologico di Ercolano con gli scavi e le strutture romane perfettamente conservate.

    Antiquarium

    Espone la straordinaria collezione di legni antichi, perfettamente conservati, e gli ori di Ercolano, testimonianza del lusso e del gusto dell’epoca romana.

    Legni antichi esposti all’Antiquarium del Parco Archeologico di Ercolano, straordinariamente conservati dopo duemila anni.

    Esperienze serali con archeologi, restauratori e architetti

    Durante le aperture serali — dalle 20:30 alle 23:30 (ultimo ingresso alle 22:30) — i visitatori hanno l’opportunità di incontrare archeologi, restauratori e architetti del Parco, che condividono conoscenze, approfondimenti e il racconto del loro lavoro quotidiano di tutela e valorizzazione del sito.

    Informazioni e prenotazioni

    Per dettagli su orari, tariffe e modalità di accesso all’iniziativa Una Notte al Museo è possibile consultare il link ufficiale:
    https://ercolano.cultura.gov.it/unanottealmuseo/ oppure visitare i canali istituzionali del Parco Archeologico di Ercolano.

    Monica Sarnelli fa il pienone all’Augusteo: presentato il progetto RitmiUrbani Network

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    Primo piano di Monica Sarnelli al Teatro Augusteo durante lo spettacolo “Sirene, sciantose, malafemmene ed altre storie di donne veraci”.

    Un Teatro Augusteo gremito celebra lo spettacolo “Sirene, sciantose, malafemmene ed altre storie di donne veraci”

    Napoli. Un Teatro Augusteo stracolmo ha accolto Monica Sarnelli e il suo spettacolo, “Sirene, sciantose, malafemmene ed altre storie di donne veraci”, scritto da Federico Vacalebre con la regia di Carlo Cerciello, in una versione rinnovata. In scena anche l’attrice Cinzia Cordella e un ensemble tutto al femminile: Cristina Massaro al piano, e il quartetto d’archi con Anna Rita Di Pace, Isabella Parmiciano, Tiziana Traverso, Monia Massa. Arrangiamenti musicali di Pino Tafuto e Salvio Vassallo. Disegno luci, Andrea Iacopino; aiuto regia e video di Fabiana Fazio.

    La serata al Teatro Augusteo

    Lo spettacolo in tono ironico riflette su un mondo, quello della musica, non solo partenopea, ancora sin troppo maschilista.
    Da Malafemmena (Totò) a Nun Te Scurda’ (Almamegretta), da Bammenella (Raffaele Viviani) a Donna (Enzo Gragnaniello), e poi Dove Sta Zazà (Gabriella Ferri), Preferisco Il Novecento (Ria Rosa), Liu’ (Alunni Del Sole), Ipocrisia (Angela Luce), Assaje (Lina Sastri | Pino Daniele), Voglia ‘E Turna’ (Teresa De Sio) e tante altre canzoni: la voce della Sarnelli ha incantato il pubblico.

    Nel finale è salita sul palco l’artista Fuliggine (Francesca Andreano, figlia della Sarnelli), che ha cantato il brano di Madame “Marea”, diventato in napoletano “Parea”: un vero inno al femminile.

    Tra il pubblico, tanti artisti e amici: Carlo Cerciello, Imma Villa, Gino Rivieccio, Amedeo Colella, Ciro Villano, Antonello Rondi, Pino Tafuto, Lino D’Angiò, Elisabetta Serio, Antonello Cossia, Eufemia Ferraro (Teatro Pubblico Campano), Stefano Prestisimone, Nando Spasiano, Francesca Silvestre, Mario De Nardo (Eventi in Campania), Carlo Famularo, Valentina De Nigris, Antonio Porcelli (Amarcord), Gianluca ed Antonio Brugnano, Rosario Bianco (Rogiosi Editore), Salvatore Cirillo (Zeus Sport), Salvatore Isaia (Gruppo Isaia, Editore Radio CRC), Anna Arenella (Annarè), Salvio Zungri (Ortopedia Meridionale), Gian Paolo Saporito (Saporito’s Team), Ivan Nocca (Avernum Relais), Gianluca Manna (PhoneVillage), Ferdi Bajrami, il regista Carlo Luglio.

    Monica Sarnelli sul palco del Teatro Augusteo in un momento dello spettacolo dedicato alle grandi voci femminili della musica napoletana.
    Monica Sarnelli in Sirene – ph©Pino Miraglia

    Calendario delle prossime date

    Dopo Napoli, “Sirene, sciantose, malafemmene ed altre storie di donne veraci” sarà in scena in molti teatri campani:

    • 16 gennaio 2026 – Teatro Ricciardi, Capua (CE)
    • 19 marzo 2026 – Teatro La Provvidenza, Vallo della Lucania (SA)
    • 20 marzo 2026 – Auditorium Tommasiello, Teano (CE)
    • 9 aprile 2026 – Teatro Minerva, Boscoreale (NA)
    • 10, 11 e 12 aprile 2026 – Teatro Di Costanzo-Mattiello, Pompei (NA)
    • 22 aprile 2026 – Teatro Italia, Acerra (NA)

    Il progetto RitmiUrbani Network

    Il foyer del Teatro Augusteo ha ospitato l’happening di presentazione del progetto RitmiUrbani Network.
    Il noto format tv degli anni ’90, ideato dal produttore musicale Dario Andreano, del quale Monica Sarnelli è stata il volto per molti anni, approda ora sui social, annunciando una serie di nuove iniziative: tra queste, il nuovo canale YouTube e la versione completamente rinnovata dello spettacolo.

    Andreano racconta:
    “Erano i primi anni ‘90, avevo fatto delle produzioni musicali (la prima, di jazz, già nel 1987) e mi domandavo come fare a farlo sapere. Pensai allora di fare un programma televisivo… zapping frenetico… auto zapping”.

    Quello stile anticipò il linguaggio dei social moderni: immagini rapide, tormentoni, ripetizioni, format sintetici.
    All’epoca RitmiUrbani – in onda 12 mesi all’anno – aveva 3 passaggi quotidiani su Canale 21, come un vero telegiornale.

    Il Sarcofago di Crispina sarà esposto al pubblico: un nuovo tesoro per la Certosa di San Giacomo a Capri

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    Sarcofago romano del II secolo d.C., noto come Sarcofago di Crispina, esposto al Museo Archeologico della Certosa di San Giacomo a Capri.

    Un nuovo tesoro per il Museo Archeologico di Capri. Un reperto romano del II secolo d.C. entra nel percorso museale caprese

    Il sarcofago cosiddetto di Crispina, uno dei reperti più identitari dell’isola, sarà presto esposto al pubblico presso il Museo Archeologico della Certosa di San Giacomo.
    L’accordo siglato tra i Musei e Parchi Archeologici di Capri e la famiglia Ruocco permetterà di valorizzare un manufatto romano di straordinario interesse storico e artistico, databile al II secolo d.C.

    Il trasferimento del sarcofago rappresenta un passo significativo nella promozione del patrimonio culturale caprese, rendendo finalmente accessibile un’opera custodita per decenni in ambito privato.

    Il Sarcofago di Crispina: tra storia, mito e leggenda

    Il sarcofago è tradizionalmente associato a Crispina Brutia, moglie dell’imperatore Commodo e appartenente a una prestigiosa famiglia lucana della dinastia antonina. Sposata appena diciottenne, ricoprì il ruolo di imperatrice per quattordici anni, fino alle accuse di adulterio che portarono al suo esilio a Capri dal 182 d.C. fino alla morte.

    Il manufatto, ritrovato nella chiesa di San Costanzo nel 1810, fu attribuito a Crispina poiché conteneva una donna deposta con abiti di pregio. Gli studi moderni hanno dimostrato che non appartiene all’imperatrice, ma il valore simbolico della tradizione ottocentesca ne ha consolidato il legame con la memoria dell’isola.

    Dal ritrovamento alla nuova esposizione museale

    Dopo la scoperta, il sarcofago fu a lungo conservato presso l’Hotel Grotte Bleue, oggi non più esistente. Per oltre un secolo la famiglia Ruocco ne ha garantito la tutela, preservandone integrità e storia.

    Grazie alla recente collaborazione con l’Istituto, nei prossimi mesi il sarcofago verrà trasferito alla Certosa di San Giacomo, dove sarà esaminato da specialisti per una valutazione conservativa preliminare.
    Successivamente verrà inserito in un percorso espositivo dedicato alla storia romana di Capri, arricchendo l’offerta culturale del museo.

    Un nuovo capitolo per il patrimonio culturale di Capri

    L’intesa testimonia l’impegno dell’Istituto nel rendere accessibili al pubblico opere di eccezionale valore storico e artistico. L’esposizione del sarcofago cosiddetto di Crispina offrirà a visitatori, studiosi e cittadini un’occasione unica per approfondire la storia antica dell’isola e riscoprire uno dei suoi simboli più affascinanti.

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