Le madri, così lontane dall’iconografia classica, destarono notevole impressione e disagio negli scopritori e nei primi studiosi.
Le definirono «tozze e mostruose sì che sembran rospi». L’eccezionalità della scoperta risiedeva altresì nel rilevante numero di statue e nella peculiarità della raffigurazione, altrove attestata raramente e in modo sporadico. Negli stessi anni alcune sculture furono acquistate da musei stranieri: otto sono conservate ai Musei Statali di Berlino e una a Copenhagen alla Ny Carlsberg Glyptotek. Due statue furono in seguito donate al Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma per completare l’esposizione sull’antica arte italica. Una statua priva di testa, acquisita da una collezione privata, entrò a fare parte nel 1901 del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Due statue sono al presente nel Museo Archeologico Statale dell’antica Capua di Santa Maria Capua Vetere. Ad esse se ne è aggiunta più recentemente una terza rinvenuta, assieme ad un altare in tufo, nel corso di una esplorazione condotta nel 1995.
Disposte in modo da essere visibili solo frontalmente e collocate una accanto all’altra, erano le oltre 160 madri rinvenute.
Scolpite nel tufo grigio del monte Tifata, le matres (madri) riproducono una figura femminile seduta su un sedile più o meno elaborato, recante in grembo uno o più bambini in fasce. In queste statue è stata riconosciuta la figura della donna offerente che dona alla dea la propria immagine accompagnata dai figli sino ad allora generati, per propiziarne il favore ed ottenere la salute propria e quella della prole. Tradizionalmente la dea venerata nell’area sacra viene identificata con Matuta. Fin dalla scoperta, la personificazione della divinità è stata identificata in una figura, seduta in trono, che reca nelle mani simboli di incerto riconoscimento, letti come una colomba e un melograno o un frutto, o anche un pane. Per le dimensioni maggiori delle altre statue, la scultura è stata tradizionalmente ritenuta come la statua di culto del santuario.
Una donna, seduta su una sedia, spesso configurata come trono, con gambe e braccioli lavorati e alta spalliera; con in grembo uno o più bambini
Le numerose madri ripropongono lo stesso soggetto: una donna, seduta su una sedia, spesso configurata come trono, con gambe e braccioli lavorati e alta spalliera. La donna ha in grembo uno o più bambini, per lo più avvolti in fasce. Talvolta la donna stringe il bambino al seno nudo nell’atto dell’allattamento. La donna veste un abito di foggia greca, il chitone, che lascia scoperte le braccia, ed è annodato in vita da una sottile cintura. L’abbigliamento è completato da un ampio mantello che copre per metà il capo o è trattenuto da un fermaglio. In numerose statue delle madri sono raffigurati monili, bracciali ai polsi o alle braccia e orecchini di foggia ellenistica. Le sculture delle madri conservano a volte traccia dell’originaria stuccatura in biacca biancastra sulla quale dovevano essere dipinti in diversa colorazione (rosso, nello specifico) ulteriori elementi ornamentali e particolari dell’acconciatura e dell’abbigliamento.
Le madri hanno tutte forme opulente e robuste, tratti del volto marcati e pesanti, con una resa rigida del panneggio della veste e del mantello.
Si devono citare madri ascrivibili chiaramente ad età romana. Si tratta di tre esemplari che tramandano la solita iconografia con l’aggiunta di bambini in piedi nei pressi del trono. Il bambino in piedi non rientra nell’iconografia originaria, divenuta poi tradizionale. L’abbigliamento dei personaggi aggiunti, proprio perché nuovi, è di tipo romano. L’assegnazione al periodo romano è ribadita dal frammento di epigrafe, in latino, che accompagna uno degli esemplari presenti nella collezione. Le madri di età romana sono tra le ultime prodotte dalle botteghe capuane e la loro produzione segna, con tutta probabilità, la fase finale del culto indigeno. Sono caratterizzate dalla presenza di bambini in piedi presso il trono, vestiti alla foggia romana, e dalla presenza di iscrizioni sulla spalliera del trono, che riportano il prenome femminile dell’offerente, secondo un’usanza vigente fino alla fine del II e inizi del I secolo a.C.
Il legame tra le madri e i numerosi reperti con il mondo dell’oltretomba
Al momento delle prime scoperte fu notata la presenza nello stesso sito di un’ampia necropoli e si sottolineò il legame tra le statue delle madri e i numerosi reperti con il mondo dell’oltretomba. Il santuario del Fondo Patturelli è stato inquadrato tra i cosiddetti santuari nelle necropoli. Luoghi in cui il tema della vita che si perpetua attraverso la fertilità sembra collegarsi alla continuità dei rapporti tra la comunità dei vivi e il mondo dei morti. Il ritrovamento di un’iscrizione, una preghiera di giustizia incisa su una lamina di piombo, rivolta a Ceres avvalora l’ipotesi che nel santuario si venerasse proprio quella dea che, nei suoi aspetti di Demetra/Kore/Ceres rigenera e perpetua la vita attraverso la riproduzione, da bambina trasformandosi in donna, che ogni anno con la primavera ritorna in vita. In tale senso la divinità onorata nel Fondo Patturelli a Capua rappresenta e protegge la maternità e i neonati, che sono il segno del ciclo biologico che include la morte e il culto funerario degli antenati.